La storia. Un’auto mai nata e Ugo Gobbato, Dg Alfa Romeo, ucciso dai rossi il 28 aprile 1945 - Barbadillo

2022-09-10 02:12:21 By : Ms. Hu Lydia

Ugo Gobbato (Volpago del Montello, 16 luglio 1888-Milano, 28 aprile 1945) è stato tra i principali fautori e protagonisti dell’industrializzazione automobilistica italiana tra le due guerre. Nato da una famiglia modesta del Veneto, appena ottenuta la licenza tecnica iniziò a lavorare come operaio presso la Officina Idroelettrica di Treviso, contemporaneamente continuando gli studi di Perito elettromeccanico. Allo scopo di specializzarsi emigrò quindi in Germania, dove fece esperienza come progettista di impianti per piccole imprese e si laureò in Ingegneria Meccanica presso il Politecnico di Zwickau, in Sassonia.  

Dopo aver conseguito una seconda laurea in Ingegneria Elettrotecnica, sul finire del 1909 rientrò in patria per assolvere agli obblighi militari. Allo scoppio della guerra italo-turca del 1911 fu assegnato, come sottufficiale, al campo d’aviazione di Cascina Malpensa. Nel 1912 assunse la direzione del reparto produttivo dei piccoli motori industriali presso la Società Ercole Marelli di Sesto San Giovanni. Richiamato alle armi nel maggio 1915, con l’entrata in guerra dell’Italia, su sua richiesta fu inviato in prima linea, nelle trincee del Carso, ove venne insignito di una Croce di Guerra al Valor Militare; nel 1916, su decisione del Comando Supremo, seguì un corso come ufficiale. In seguito egli fu destinato a dirigere lo stabilimento S.C.A.F. destinato a produrre nuovi aerei. Nel 1919, congedato, l’ing. Gobbato venne assunto alla Fiat con l’incarico di organizzare la riconversione degli impianti dalla produzione bellica a quella civile. 

Il Senatore Agnelli – che conosceva le persone ed aveva intuito il valore di quel trentenne – lo inviò presto in America a studiare i sistemi di produzione della Ford e fu lui il prescelto per progettare, costruire e dirigere il nuovo stabilimento del Lingotto, a Torino, la prima fabbrica italiana basata sul sistema della catena di montaggio. Dal 1929 al ’31 Ugo Gobbato seguirà la costruzione di stabilimenti Fiat in Germania e Spagna. Sempre nel 1931, il senatore Agnelli, gli affidò la direzione della costruzione della gigantesca fabbrica di cuscinetti a sfera ed a rulli RIV a Mosca, città dove vivrà per un paio d’ anni. 

Rientrato in Italia nel 1933, Benito Mussolini scelse Gobbato per dirigere l’Alfa Romeo e realizzarne la profonda ristrutturazione, siccome l’azienda versava in difficili condizioni.  Nonostante i successi sportivi, la situazione finanziaria dell’Alfa era critica, anche per la crisi economica del ’29. Nel 1933 il governo decise, allora, di rilevare le quote dell’Alfa Romeo possedute dalle banche, acquisendo ufficialmente il controllo dell’azienda che diventò pertanto statale. Mussolini decise, con buon fiuto, attraverso l’IRI, di andare contro l’opinione di alcuni membri del governo, che propendevano per la chiusura, e diede poi ad Ugo Gobbato l’incarico di riorganizzare l’Alfa dal punto di vista sia finanziario sia produttivo. Il salvataggio dell’Alfa Romeo fu ottenuto per il lavoro compiuto da Gobbato e da Vittorio Jano, un fine e geniale progettista torinese di origine ungherese. Ugo Gobbato era l’artefice di quell’approccio “scientifico” alla produzione dell’autoveicolo che ha reso grande la Fiat, uno dei principali fautori dell’industrializzazione automobilistica nazionale; una vita spesa tra la FIAT e l’Alfa Romeo ai massimi livelli ed in giro per il mondo.

Gli anni precedenti la seconda guerra mondiale furono caratterizzati da modelli Alfa Romeo di grande successo e fascino, contraddistinti da una linea assai elegante. In particolare, i tre modelli che negli anni trenta fecero della Casa un marchio famoso in tutto il mondo, le vetture 8C 2300, 8C 2900 e  8C 2500, che presero il posto della già leggendaria 6C 1750,  prodotta nel 1929-1933.  Questa fama mondiale si consolidò anche grazie alle gare ed ai piloti che ottennero successi rilevanti. Nel giro di un quinquennio l’Alfa non solo si risollevò, ma convertì in parte la produzione di auto e camion a quella avio, costruendo motori per aerei ed eliche. Gobbato, per consentire all’azienda una veloce ripresa, marginalizzò un po’ le auto a favore della produzione di mezzi militari e motori aeronautici, che venivano realizzati nello stabilimento di Pomigliano d’Arco (Napoli), inaugurato nel 1938, da lui fortemente voluto, che dimostrerà la straordinaria capacità e la forte tenacia dell’eccezionale dirigente industriale. Una fabbrica tecnologicamente all’avanguardia. Per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori residenti nella zona si edificò ex novo  un quartiere di cinquecento case, ognuna con un piccolo giardino, mentre per quelli forestieri fu costruito un albergo di circa settecento posti. (Da Marino Parolin, Ugo Gobbato, la leggenda di un innovatore senza epoca, 2009; https://www.gobbatougo.it).

Il rilancio dell’Alfa poteva ben dirsi riuscito se, nel corso di una conversazione con lo stesso Ingegner Gobbato, nel 1939, Henry Ford pronunciò la celebre frase: «Quando vedo un’Alfa Romeo mi tolgo il cappello»!

Gobbato mantenne la sua carica di Direttore Generale dell’azienda anche dopo l’8 settembre 1943 e durante l’occupazione tedesca, nonostante la possibilità di rifugiarsi nella vicina Svizzera ed attendere la fine della guerra; il suo attaccamento al lavoro venne scambiato da parecchi per collaborazionismo, pure se tante toccanti testimonianze ricordano proprio Gobbato adoperarsi per impedire che materiali, macchinari e specialmente uomini prendessero la via della deportazione in Germania. Oltretutto suo figlio Pier Ugo Gobbato (1918-2008) – ingegnere, pilota, che sarà anch’egli un prestigioso dirigente industriale nello stesso settore, in Fiat, Ferrari, Lancia, tra l’altro artefice della produzione della ‘Stratos’ nel 1973 – era rimasto dall’altra parte del fronte, nel Sud cobelligerante, Ufficiale d’Aviazione, Medaglia d’Argento al Valor Militare.

Tra i molti disagi rimase, comunque, la volontà ferma ed assoluta di continuare, nonostante le distruzioni. L’azienda doveva andare avanti, pensare al domani, anche se ormai i tedeschi controllavano pure le decisioni dirigenziali. Nel 1944 l’Alfa Romeo, su pressioni delle autorità germaniche, dovette unirsi in Consorzio con l’Isotta Fraschini e con le Officine Reggiane formando la società CARIM per la costruzione di parti del motore Junkers.

Tuttavia, il CLN esautorò subito Gobbato da ogni incarico e lo sottopose a ‘processo’ davanti ad un ‘Tribunale del Popolo’ allestito nell’azienda il 26 aprile 1945, a Milano. Il giorno dopo, 27 aprile, egli fu nuovamente processato da un ‘Tribunale Politico’ esterno all’Alfa Romeo, formato dal gruppo di Giuseppe Marozin, ambiguo e controverso comandante partigiano delle Brigate Matteotti, già arruolato nella Legione Straniera spagnola, autore di omicidi, stupri e rapine. Molte furono le voci di operai che si levarono in difesa di Gobbato e le accuse degli unici due testi a carico, Antonio Mutti e Gastone Mattarello, si dimostrarono infondate. I due erano convinti che Gobbato fosse l’autore di una soffiata all’origine del trasferimento in Germania di alcuni operai, ma si sbagliavano. Gobbato non era neppure iscritto al PFR. In entrambi i ‘processi’ venne assolto. 

La mattina del 28 aprile 1945, mentre tornava in bicicletta dal proprio ufficio, dove si era recato per ritirare delle carte, Gobbato venne raggiunto da una vettura con tre uomini armati a bordo, nei pressi di via Domodossola. Scesi dall’auto essi fecero fuoco sul dirigente dell’Alfa Romeo, uccidendolo e dileguandosi. L’inchiesta stabilì che il primo a sparare, e l’unico responsabile identificato, fu Antonio Mutti, uno dei due operai che avevano deposto al processo del giorno precedente, evidentemente insoddisfatto per l’assoluzione di Gobbato e deciso a regolare i conti, sfruttando il caos del momento. Non fece mai un giorno di galera. L’istruttoria venne chiusa ed archiviata il 23 giugno 1960. Trattandosi di un delitto determinato da motivi politici, il reato doveva ritenersi  estinto per effetto dell’amnistia concessa dal DPR n. 460 dell’11 luglio 1959.  Oltre al lutto, anche i problemi pratici, angustianti della famiglia Gobbato, come ricorderà il figlio Pier Ugo:

‘Mia madre era rimasta sola con i miei cinque fratelli non arruolati. Quando arrivai a casa trovai una donna disperata anche perchè mio padre aveva un’assicurazione sulla vita che però escludeva “l’insurrezione popolare”: la compagnia di assicurazione si appoggiò subito a questa clausola. Con la medesima motivazione l’Alfa Romeo non liquidò neanche una lira. Mia madre si trovò senza una lira e si arrangiò vendendo ad amici i pochi gioielli che aveva conservato. Grazie all’Ing. Einaudi dell’IRI riuscii a ottenere almeno la liquidazione maturata in dieci anni: 902.000 lire. Ma non subito: almeno sei mesi dopo la morte mentre il valore della lira precipitava’.

Sosterrà molti anni dopo il medesimo Pier Ugo Gobbato: 

‘Un particolare interessante è che questo operaio era stato collaboratore di mio padre quando aveva lavorato in URSS. Esiste una fotografia dell’inaugurazione dello stabilimento  RIV di Mosca in cui si vede tutta la gerarchia dello stabilimento con in mezzo il Presidente del Primo Piano Quinquennale Sovietico. Fra i personaggi c’è Palmiro Togliatti e, seduto davanti a lui, c’è proprio l’assassino di mio padre. Secondo me, chi ha dato l’ordine di uccidere mio padre è stato Togliatti per eliminare un potenziale pericoloso testimone di prima mano del totale fallimento  del Piano Quinquennale. Del resto, Togliatti aveva fatto cose terribili in Russia, liberandosi senza scrupoli di amici e conoscenti che lo adombravano o che avrebbero potuto farlo al suo ritorno in Italia. Questa fotografia lascia perplessi: quest’individuo era un operaio comunista e stava seduto proprio davanti a lui che era il capo dei comunisti. La mia è un’argomentazione; ha cercato di dimostrarla un giornalista del Giornale, che purtroppo è morto di cancro: Dario Riva. Era addirittura riuscito a contattare l’assassino di mio padre ricavandone la sensazione che ci fosse stato questo ordine. Tuttavia non è riuscito a tirar fuori la verità. Non c’è quindi la possibilità di dimostrare questa tesi’.

(Cfr. https://www.aisastoryauto.it/wp-content/uploads/2015/02/Aisa-86FINALE.pdf).

Il dirigente dell’Alfa Romeo, vilmente assassinato dai comunisti il 28 aprile ’45, non era  solo un capace uomo d’azienda, introduttore di nuove tecniche organizzative e gestionali, necessarie al governo di organizzazioni complesse, un’intelligenza acuta, una persona coraggiosa, ma anche un saggista, che nello scritto “Organizzazione dei fattori di produzione”, pubblicato postumo nel 1949, teorizzò un modo di produrre beni basato sulla valorizzazione delle capacità individuali e relative professionalità e sulla condivisione delle finalità aziendali: 

‘In linea generale, il progetto di Gobbato è il progetto di un’industria decentrata e specializzata, che eviti le grandi dimensioni, che integri città e campagna, che non contribuisca all’urbanizzazione accentuata e accelerata in corso. Per Gobbato è necessario mantenere le qualità e le caratteristiche del prodotto italiano, puntando però su dimensioni non semplicemente neo-artigianali. Il suo progetto non è quindi quello di una produzione d’élite, come sosterrà (demagogicamente) nel 1946 l’ing. Pasquale Gallo, nuovo presidente dell’Alfa Romeo, …una proposta che coglie in pieno i rischi tanto di una applicazione cieca del modello fordista, quanto di una visione limitata e ristretta delle potenzialità che si aprono all’industria italiana del dopoguerra’. 

Sostiene Gobbato che l’azienda

‘sia “sacra all’opera ed esclusa ad ogni influenza che non sia progresso o miglioria del rendimento”. È il suo programma, il suo messaggio; l’azienda come possibile centro della società, per ritrovare una coesione che non può essere affidata né alla famiglia né all’individuo come atomo della società, né allo Stato come forza troppo lontana dalla vita delle persone. Gobbato invece pensa all’azienda come nucleo di una possibile ricostruzione italiana….”Che poi partiti politici, istituzioni ed iniziative di diversa natura abbisognano di ausili o sussidi, mai questi devono essere chiesti o dati dall’azienda, la quale non deve né può, con ciò e per ciò, aumentare o diminuire in simpatia verso il favorito o sfavorito: piaceri e favori può farli il singolo col suo patrimonio individuale e solo mediante ciò che personalmente gli appartiene può guadagnarsi benemerenza e considerazione individuale’.

Quanta saggezza! Quanta consapevolezza che il fascismo, non meno di un certo capitalismo, era veramente finito e che “tangentopoli” mai sarebbe dovuta arrivare… L’ingegner Ugo Gobbato, che qui sembra anticipare alcune tesi del Movimento Comunità di Adriano Olivetti, era stato certamente una figura centrale dello sviluppo dell’automobile e della meccanica tra il 1920 ed il 1945:

‘ …ebbe un ruolo cruciale per la crescita delle aziende che si trovò a dirigere, manifestando in tutte queste vicende non solo grandi  capacità professionali, ma anche un senso del proprio dovere di guida e di responsabilità verso la collettività che ne caratterizzano in modo insigne e peculiare la figura di uomo e capitano di industria. L’assassinio che troncò la sua vita appena dopo la Liberazione fu un episodio odioso, al termine di un periodo tragico per tutta l’umanità. E privò l’Italia di una persona che avrebbe di certo dato un contributo di grandissimo valore alla ripresa post-bellica’.

(cfr. Lorenzo Boscarelli, Attori di un’epoca, in Pier Ugo e Ugo Gobbato. Due vite per l’automobile, AISA, 2016, in https://www.aisastoryauto.it/wp-content/uploads/2016/11/aisa86web.pdf).

Nel corso della sua attività all’Alfa Romeo, Gobbato poté contare sulla collaborazione di una squadra eccezionale, cosmopolita, composta da Wifredo Ricart, Orazio Satta Puliga, Giuseppe Busso e Rudolf Hruska. A conferma che l’Italia non soffrì mai di pregiudiziali nazionalistiche…

Wifredo Ricart, che entrò in Alfa nel 1936, spagnolo transfuga a causa della guerra civile, era una figura poliedrica e dai grandi interessi (ex militare, poliglotta, matematico, ingegnere meccanico, pilota d’aereo e d’auto), trasfuse le sue qualità in Alfa Romeo, dove divenne Capo del Servizio Studi Speciali e progettò le monoposto 162 del ’39 e 512 del ’40, dotate di compressore a doppio stadio, il coupé da competizione 163 ed infine il motore aeronautico radiale 1101, con sette bancate di quattro cilindri ciascuna. Ricart nel 1939 cooptò Orazio Satta Puliga, altra figura di grande spessore tecnico e grande personalità. Nel 1945 lasciò l’Alfa, e l’Italia, per rientrare a Barcellona, spinto all’abbandono anche dalla drammatica fine di Gobbato, suo amico personale.

Laureato in Ingegneria Meccanica al Politecnico di Torino nel 1933 ed una seconda volta in Ingegneria Aeronautica nel 1935, Orazio Satta Puliga entrò all’Alfa Romeo nel 1938. Nel 1946 venne nominato Direttore della Progettazione e delle Esperienze, nel 1951 divenne Direttore Centrale e nel 1969 Vice Direttore Generale. La progettazione della 1900, della Giulietta, della Giulia, della 1750, dell’Alfetta e delle loro derivate si deve a lui e ad altri tecnici sotto la sua direzione: Giuseppe Busso, Rudolf Hruska, Filippo Surace e Domenico Chirico, solo per citarne alcuni.

Di Giuseppe Busso l’azienda, commemorando la sua figura disse che “avrebbe continuato a vivere nel cuore delle Alfa Romeo, nel rombo del motore, voce instancabile sopra l’asfalto di chi, come lui,  ha fatto grande l’Alfa”. La carriera alfista di Busso, dopo un biennio in Fiat, iniziò nel 1939 con una diretta collaborazione prima con Satta, che lo destinò alla progettazione di particolari di auto da corsa, e poi con Ricart. Dal 1946 al ’48 visse una parentesi alla Ferrari, interrotta a causa di dissapori con Gioachino Colombo, per tornare nuovamente sotto il segno del Biscione, dove poi assunse la carica di responsabile della progettazione della meccanica di tutte le vetture prodotte al Portello e ad Arese (dalla 1900 alla prima Giulietta, sino all’Alfa 6).   Assunto come semplice perito industriale conseguì – lavorando – una prestigiosa laurea al Politecnico di Milano e scalò la gerarchia interna sino a diventare Condirettore Centrale. Nel 1977 lasciò un’azienda che più di altre aveva dato dimostrazione di come un tecnico potesse arrivare alle più alte cariche. Proprio questa frequente trasversalità permise al marchio milanese di mantenere ed alimentare il suo particolare codice genetico.

L’ultimo del quartetto fu l’austriaco Rudolf Hruska, già collaboratore di Ferdinand Porsche,  approdato al Portello nel 1939 con il compito di riorganizzare il lavoro in linea al fine di migliorarne la produttività. Il successo conseguito con la produzione della Giulietta (200 esemplari al giorno) gli valse nel 1954 la nomina a Direttore Tecnico dell’azienda. Dal ’56 al ’60 fu Vice Direttore Generale dell’Alfa Romeo che lasciò per la FIAT, ove rimase sei anni; tornando su invito del Presidente Massaccesi con il compito di organizzare lo stabilimento di Pomigliano d’Arco, nel quale produrre l’Alfasud, auto che, con il suo motore boxer e la trazione anteriore, ruppe lo schema storico del motore anteriore e trazione posteriore. Hruska lasciò l’Alfa nel 1980.

L’Ufficio Progetti Alfa Romeo, che  aveva a capo dal 1940 il catalano Wilfredo Ricart, si vide affidare nel 1943 da Gobbato lo studio di una nuova vettura da lanciare al termine dl conflitto.  Nonostante molte difficoltà (l’Ufficio si era spostato sulle rive del Lago d’Orta per sfuggire i bombardamenti), Ricart impostò un progetto assai innovativo, la ‘Gazzella’: una berlina con scocca portante,  con motore sei cilindri in linea bialbero da 2 litri (1954 cm3), sospensioni a barre di torsione trasversali e cambio in blocco col differenziale, potenza: 85 CV a 5.500 giri/min, cambio: 4 marce + retromarcia,  massa a vuoto: 1120 kg. Il modello anticipò la trasmissione transaxle che fu poi montata trent’anni dopo sull’ Alfetta. Per ottenere la panca anteriore a tre posti, venne posta la leva del cambio al volante, azionato da un sistema idraulico. Vennero prodotti componenti per sei vetture ed il prototipo fu approntato a guerra appena finita, con risultati soddisfacenti.

La ‘Gazzella’ si presentava con un profilo aerodinamico – ispirato allo streamline della Chrysler Airflow del 1934 – con i fari a scomparsa.

  Tuttavia l’allora Commissario Straordinario per l’Alfa Romeo, Pasquale Gallo, bocciò la vettura, stroncando ogni possibilità di futuro sviluppo. La sorprendente decisione, in parte spiegabile con la ridotta capacità produttiva dovuta ai danni provocati dai bombardamenti subiti dallo stabilimento del Portello, venne però fortemente criticata dai tecnici, che ipotizzavano (a ragione) la motivazione politica della bocciatura. In quei mesi, effettivamente, il clima sociale permaneva agitato e nelle fabbriche importanti il controllo esercitato dai Consigli di Gestione, a forte presenza comunista, influiva seriamente sulle scelte aziendali, e non solo…

L’ing. Gallo – che sarebbe stato successivamente nominato Presidente dell’Alfa Romeo – preferì prudentemente sfilarsi, visto che il progetto era stato voluto da Ugo Gobbato e firmato da Wifredo Ricart, noto per le sue simpatie fasciste, tornato nella Spagna franchista nel 1945. Così Gallo ‘uccise’, per motivi di opportunità contingente ed ideologica, la ‘Gazzella’. Tale dubbio venne polemicamente espresso dall’ing. Gian Paolo Garcea, valente progettista Alfa, che in un memoriale di confutazione delle motivazioni addotte da Gallo ebbe a scrivere :

“Cos’è che nella Gazzella non va bene. Il motore forse? Il telaio? La carrozzeria?A parere della DPE (Direzione Progettazioni ed Esperienze) tali inconvenienti erano talmente trascurabili rispetto a tutto il resto da rendere assolutamente ingiustificato l’abbandono della Gazzella … Ma se non andiamo errati forse al Commissario non è piaciuta la forma della Gazzella…” 

Fu così che la ‘Gazzella’ non entrò in produzione e si preferì riprendere l’assemblaggio del 

vecchio modello 6C 2500. Ne fu montata solo una, successivamente andata smarrita e presumibilmente  distrutta. 

(https://it.wikipedia.org/wiki/Alfa_Romeo_6C_2000_%22Gazzella).

Nel 1948 l’Alfa Romeo passa sotto la direzione della Finmeccanica e da quel momento la produzione cambiò radicalmente. Non più motori aerei e marini sulle linee di produzione, ma essenzialmente autovetture di serie. Ai vertici dell’azienda arriva Giuseppe Luraghi, già direttore generale della Finmeccanica.

Nel 1950 la 6C 2500 era ormai assai superata e, finalmente, l’Alfa Romeo ritenne che i tempi fossero maturi per realizzare una vettura moderna, al passo con le nuove tecnologie che ormai proponevano la carrozzeria con la scocca integrata al telaio, come era stato con il rigettato prototipo di Ricart. La vettura, la 1900, interamente progettata sotto la supervisione di Orazio Satta Puliga, conteneva diverse raffinatezze meccaniche. Il “cuore” della 1900 era il motore. Con questa vettura la casa milanese abbandonò i frazionamenti a sei e otto cilindri in favore del quattro cilindri. Veniva però rispettata la tradizione con l’adozione della testata in lega leggera, dei due alberi a camme in testa e delle camere di scoppio emisferiche. Il 4 cilindri 1900 cominciò a girare al banco il 14 gennaio 1950, in una prima versione con il basamento in alluminio. Con un solo carburatore dava una novantina di cavalli. Per la sospensione anteriore Giuseppe Busso (progettista dei gruppi meccanici) optò per lo schema con quadrilateri trasversali, molle ad elica e ammortizzatori telescopici. La sospensione posteriore era inedita. Il ponte rigido con coppia conica ipoide, molle ad elica e ammortizzatori tubolari era collegato longitudinalmente al telaio tramite due puntoni di duralluminio che applicavano al telaio delle spinte anticoricanti in curva. La novità più sostanziale consisteva comunque nell’adozione di una struttura monoscocca, in grado di sopportare tutte le sollecitazioni, senza dover dipendere da un telaio. La configurazione della forma, il progetto dettagliato di tutti i lamierati e persino lo studio delle attrezzature produttive furono integralmente eseguiti al Portello.

A quei tempi non c’era concorrenza: l’unica che poteva confrontarsi con l’Alfa 1900 era un’altra italiana, la Lancia Aurelia. La 1900 Fiat non era paragonabile, l’Audi non esisteva ancora, c’era l’ Auto Union che solo sfornava le brutte DKW; la BMW 501 era una vettura sgraziata e lenta. I mastodonti americani non arrivavano e non sarebbero piaciuti. Molti marchi erano scomparsi. L’Alfa Romeo 1900 era l’auto di serie più potente e desiderata del mondo, con i suoi 115 CV, due carburatori, 165 Km/h., con una sobria carrozzeria tipo ‘Ponton’, senza parafanghi separati dal corpo vettura e la mancanza di predellini; una fiancata liscia e linee arrotondate, pulite, senza velleità aerodinamiche. L’Alfa Romeo 1900 venne prodotta tra il 1950 ed il ’59. Della versione berlina furono prodotti 17.334 esemplari. I vari allestimenti sprint coupé, sport, competizione e di carrozzerie esterne elevano detta cifra di alcune centinaia di unità.

  (Cfr. http://www.alfaromeo1900.it; www.pasqualerobustini.com/cuoresportivo/alfa-romeo-1900).   

Ma dal punto di vista economico i conti non tornavano. Forse anche questa caratteristica di non compromesso ha fatto sì che l’Alfa Romeo diventasse un mito nell’immaginario degli appassionati, gli “alfisti”. Una Casa che costruisce auto col cuore, per passione pura, più che per profitto. Ogni Alfa del periodo trasmetteva questa idea. Però le vendite della 1900 non erano sufficienti e dopo un po’ l’Alfa fu costretta ad abbandonare la F1 – pur avendo vinto con la 158/159 ‘Alfetta’ il primo Campionato di F1 con Nino Farina, nel 1950 – per risparmiare e tornò a concentrarsi sul progetto di una “piccola” che potesse soddisfare una maggiore fetta di pubblico, senza snaturare la filosofia originale della casa produttrice. E senza smettere di produrre la 1900.

Nacque così la ‘Giulietta’, nel 1955.

Gianni Marocco su Barbadillo.it

Ad oggi purtroppo quella filosofia che contraddistinse l’Alfa non c’è più secondo me, le moderne Alfa Romeo sono comunque belle macchine ma troppo simili alle loro concorrenti sul mercato europeo, un declino dell’auto italiana che si nota da anni, soprattutto per chi vedeva in marchi come Alfa e Lancia due eccellenze del panorama automobilistico continentale.

“All’orizzonte di quell’oceano ci sarebbe stata sempre un’altra isola, per riparsi durante un tifone, o per riposarsi e amare”. Hugo Pratt

Barbadillo è un laboratorio di idee nel mare del web che, a differenza d’altri, non naviga a vista. Aspira ad essere un hub non conformista, un approdo libero nel quale raccogliere pensieri e parole e dove donne e uomini in marcia possono fermarsi a discutere insieme di politica, ecologia, musica, film, calcio, calci, pugni e rivoluzione.