L’allargamento della Nato: prospettive sull’ingresso di Svezia e Finlandia | ISPI

2022-06-18 16:02:00 By :

La Nato ha attraversato negli ultimi trent’anni un profondo processo di trasformazione attraverso il quale ha aggiornato i suoi strumenti militari e la sua postura strategica. L’allargamento dell’alleanza e la fitta rete di partnership strategiche con paesi non membri è una delle dimensioni più rilevanti di questo processo di trasformazione successivo alla fine della guerra fredda. Il passaggio da 16 membri al momento del crollo del muro di Berlino agli attuali 30 è il segnale di un grande investimento nei processi di apertura e inclusione che hanno notevolmente ampliato l’orizzonte strategico della Nato.

L’aspetto più sorprendente delle politiche di allargamento così come sono emerse dalla metà degli anni Novanta è la straordinaria continuità con cui i vertici dell’alleanza – a partire dagli Stati Uniti – hanno attribuito un valore cruciale all’allargamento e lo hanno motivato per le stesse ragioni politiche e strategiche (la messa in sicurezza dei processi di democratizzazione dei paesi dell’ex blocco sovietico e dei paesi indipendenti dell’ex-Unione Sovietica; il consolidamento della sicurezza Europea e dell’ordine internazionale liberale). Dunque, nonostante le profonde crisi e le svolte nella politica internazionale degli ultimi tre decenni la politica dell’allargamento della Nato è rimasta sostanzialmente simile.

L’attuale crisi, esplosa con la guerra in Ucraina, ha ulteriormente confermato la persistenza dell’approccio all’allargamento abbracciato negli anni Novanta. La richiesta di adesione di Finlandia e Svezia, messa in agenda come conseguenza dell’aggressione russa dell’Ucraina, reagisce a una crisi contingente ma i principali indirizzi rimangono quelli di sempre: inclusione, allargamento del perimetro di sicurezza degli alleati e dei partner, offerta di garanzie di sicurezza credibili agli aspiranti membri.

A dispetto della sua persistenza e dei successi, l’inclusione di nuovi membri si è sempre accompagnata ad aspetti problematici, a dibattiti accesi e in alcuni casi a critiche pungenti in merito all’espansione della Nato. Le prospettive di ingresso di Finlandia e Svezia non fanno eccezione anche se, come si vedrà in dettaglio di seguito, il tipo di benefici o di criticità sollevate dalla loro ammissione nella Nato sono di ordine e di natura diversi rispetto agli allargamenti del passato recente. Per far luce su questi aspetti, l’analisi che segue si articola in tre sezioni: la prima dedicata a una prospettiva storica e di inquadramento dell’allargamento della Nato nel periodo post-guerra fredda; la seconda si concentra sui due candidati al nuovo allargamento, Finlandia e Svezia; la terza approfondisce le prospettive del loro ingresso sia in termini di benefici per la Nato sia in termini di problematicità.  

L’Alleanza atlantica ha avviato processi di allargamento già ai tempi della guerra fredda (Turchia nel 1952, Germania Ovest nel 1955, Spagna nel 1982), tuttavia il processo vero e proprio di allargamento della Nato è un fenomeno essenzialmente successivo al crollo dell’Unione Sovietica e alla fine del confronto bipolare (si veda la fig. 1). Lo scarto fra i due periodi non è solo quantitativo (3 ammissioni nei 40 anni della guerra fredda contro 14 ammissioni nei tre decenni successivi) ma è uno scarto soprattutto qualitativo: con l’espansione a est lanciata negli anni Novanta la Nato ha, in primo luogo, radicalmente cambiato il suo posizionamento e il suo orizzonte geopolitico; in secondo luogo, ha incluso fra i suoi paesi membri paesi dell’ex-blocco socialista, attraendo stati che fino a pochi anni prima facevano parte del fronte dei nemici; infine, l’allargamento post-guerra fredda non è stato né accidentale né marginale ma è stato un vettore deliberato di trasformazione profonda dell’Alleanza, nei suoi scopi e nei suoi compiti.

Fig. 1 – Processo di allargamento della Nato (1949-2020)

Fonte: Mappa disponibile online con rielaborazione dati dal sito ufficiale Nato (www.nato.int – portale ‘Member Countries’)

L’allargamento è una prospettiva che ha impegnato i vertici della Nato da subito, già l’amministrazione americana guidata da George H.W. Bush nel 1990 aveva preso in considerazione il tema dell’espansione a est della Nato. Le principali ragioni prese in esame erano le seguenti: la preoccupazione di evitare che il vuoto politico nell’Europa dell’Est seguito alla dissoluzione del blocco sovietico potesse trasformarsi in una spirale di instabilità, l’idea di offrire un posizionamento internazionale saldo che mettesse in sicurezza i processi di transizione alla democrazia, evitare il de-coupling inscritto nell’eccessiva autonomia dell’Europa alimentato dai processi di integrazione, contenere la Russia.

Se durante la presidenza Bush prevalsero ancora le cautele, è stata l’amministrazione Clinton (1993-2000) che ha messo in agenda l’allargamento della Nato approdando infine all'ammissione di tre nuovi membri nel 1999 (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria). Negli anni di Clinton si è affermato in modo definitivo negli Stati Uniti e nella Nato quello che è stato definito enlargement consensus, un consenso diffuso e stabile intorno all’idea che nelle politiche di allargamento convergessero interessi da parte dei paesi membri e da parte degli aspiranti tali. Per i paesi membri l’allargamento ha significato il rilancio dell’alleanza dopo il crollo dell’URSS, la conferma dell’impegno americano in Europa e il consolidamento della sicurezza nel vecchio continente. Per gli aspiranti paesi membri dell’Europa dell’est significava ancorare la propria sicurezza alle istituzioni internazionali occidentali e sottrarsi dalla sfera di influenza della Federazione Russa.

Negli anni Novanta, infine, l’allargamento della Nato è risultato del tutto coerente con la dottrina dell’amministrazione Clinton: la National Security Strategy of Engagement and Enlargement adottata nel 1996. In quel documento l’amministrazione rigettava ogni afflato isolazionista post-guerra fredda e abbracciava una postura internazionalista di impegno americano nel sistema internazionale attraverso le principali organizzazioni internazionali multilaterali, promuovendone l’allargamento e l’inclusione.

Dalla seconda metà degli anni Novanta dunque l’allargamento della Nato è diventato un indirizzo condiviso e duraturo a livello bipartisan negli Stati Uniti. I due candidati alla presidenza dopo Clinton – G.W. Bush e Al Gore – si divisero quasi su tutto in materia di politica estera ma non sulla decisione di sostenere e proseguire l’espansione a est dell’Alleanza. Dagli anni 2000 in poi, infatti il tema non è stato più se allargare la Nato ma quando e come. Se ancora alla metà degli anni Novanta l’allargamento della Nato incontrava una qualche forma di opposizione nel Congresso americano e nelle principali capitali europee, dopo il primo allargamento del 1999, il consenso è diventato quasi unanime. Francia, Italia e Germania e altri vecchi paesi membri hanno manifestato perplessità circa l’ammissione di Georgia e Ucraina messa in agenda nel summit della Nato di Bucarest nel 2008 ma, in generale, l’approccio all’allargamento come politica inclusiva dell’alleanza non è stato messo in discussione.

Anche l’amministrazione di G.W. Bush, di indirizzo più unilateralista e parzialmente neo-isolazionista, non ha fatto marcia indietro. Al contrario, nel 2002 sostenne al summit di Praga quello che è stato definito il ‘big bang round of enlargement’, ossia il secondo grande allargamento post-guerra fredda avvenuto nel 2004 con l’ingresso di sette nuovi membri (Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia). Il nuovo round dell’allargamento ammetteva non solo membri dell’ex-Patto di Varsavia ma anche paesi dell’ex-Unione Sovietica. L’amministrazione Bush, infine, sostenne con forza anche l’inserimento in agenda dell’ammissione di Ucraina e Georgia nel 2008, come si è detto, incontrando diverse resistenze da parte europea.

Negli anni di Obama, a maggior ragione con la sua ambizione di rilanciare il multilateralismo, Washington ha sostenuto fermamente le politiche di allargamento. Da un lato, Obama ‘congelò’ i processi di ammissione di Ucraina e Georgia per le tensioni che questi creavano con la Russia, tensioni che erano contrarie alla sua volontà di avviare una nuova distensione con il Cremlino (la politica del Reset nei confronti della Russia). Dall’altro, nel 2009 sostenne l’ingresso di due nuovi membri (Croazia e Albania) nella politica più ampia di accogliere nella Nato i paesi dei Balcani occidentali.

Neanche l’amministrazione di Donald Trump – nonostante le ambizioni neo-isolazioniste e le profonde critiche alla Nato – ha rivisto o cambiato l’indirizzo in materia di allargamento. Non solo, al di là della retorica, la presidenza Trump non ha rivisto nulla di sostanziale in merito all’impegno americano nella Nato ma, come tutti i presidenti precedenti, ha sostenuto l’ammissione di nuovi membri: Montenegro e Macedonia, infatti, sono entrati nella Nato rispettivamente nel 2017 e nel 2020.

Infine, anche l’amministrazione Biden ha confermato lo stesso approccio inclusivo e lo stesso impegno ad ammettere i paesi che aspirano a entrare nella Nato su tre fronti: il sostegno a proseguire l’ingresso dei paesi dei Balcani con il processo di ammissione della Bosnia Erzegovina; la prosecuzione dell’ipotesi di ingresso dei paesi più problematici per le relazioni con Russia (Georgia e Ucraina) senza indicare tempi precisi ma anche senza toglierli dall’agenda della Nato[1]; il sostegno alle richieste emerse di recente da parte di Svezia e Finlandia.

In definitiva, l’alleato di gran lunga più forte e influente nel disegnare le politiche dell’Alleanza atlantica ha manifestato un impegno sull’allargamento stabile, di lungo periodo e non esposto ai mutamenti impressi dal cambio di colore politico alla presidenza. Questo impegno da parte americana è stato in larga parte condiviso dai paesi europei. Non sono mancati alcuni attriti. Negli anni Novanta, ad esempio, il primo allargamento messo a programma dall’amministrazione Clinton fu condotto quasi senza consultare i paesi europei o comunque senza un loro coinvolgimento sostanziale. Senz’altro le tensioni più profonde si registrarono al già citato summit di Bucarest del 2008, queste derivarono dal fatto che l’idea di inserire ufficialmente Ucraina e Georgia nella lista dei paesi con cui avviare processi di adesione fu una decisione americana, nella quale le inclinazioni e le perplessità degli alleati europei furono ascoltate poco o punto. Tuttavia, nonostante le frizioni su alcuni allargamenti specifici o sulla condivisione delle decisioni comuni, i paesi europei hanno inequivocabilmente sottoscritto l’approccio generale emerso nel post-guerra fredda, ossia l’idea di un’alleanza inclusiva e orientata all’allargamento.

A conclusione di questa breve panoramica sull’allargamento della Nato dalla fine della guerra fredda, va sottolineato un aspetto spesso ignorato nel dibattito sul tema. L’ammissione di nuovi membri che diventano ufficialmente alleati, quindi paesi Nato, non esaurisce le politiche di inclusione e il tema dell’allargamento. Quella adottata dagli anni ’90 in poi è stata una vera e propria politica della ‘porta aperta’ – la cosiddetta NATO Open Door Policy – che include non soltanto processi finalizzati all’ammissione ma una serie molto articolata ed estesa di partnership individuali o regionali, programmi di cooperazione e progetti di collaborazione e sostegno nel settore di sicurezza con paesi terzi. In altre parole, non esiste una netta separazione fra chi sta dentro l’alleanza e chi sta fuori (come ai tempi della guerra fredda). Negli ultimi trent’anni la Nato ha inaugurato una fitta rete di partnership con paesi non-Nato con cui in molti casi si sono stabiliti solidi legami di cooperazione – fra le più note la Partnership for Peace lanciata nel 1994; la Euro-Atlantic Partnership Council (EAPC) che attualmente coinvolge 20 paesi non-Nato dell’area euro-atlantica (fra i quali gli aspiranti membri Bosnia Erzegovina, Svezia e Finlandia)[2]; il NATO's Mediterranean Dialogue che include i paesi rivieraschi del Mediterraneo che non sono membri dell’alleanza; la Istanbul Cooperation Initiative (ICI) che ha aperto un foro di dialogo e cooperazione con alcuni paesi del Golfo Persico appartenenti al Gulf Coopertion Council; attraverso il format Partners across the globe i paesi Nato intrattengono rapporti formali con paesi terzi molto lontani dall’area euro-atlantica come Australia, Giappone, Corea del Sud e molti altri. A questa rete di cooperazione politico-militare si aggiungono infine i programmi individuali di avvicinamento all’alleanza e all’eventuale ingresso – il più importante dei quali è il Membership Action Plan (MAP): un programma di supporto e assistenza da parte della Nato per accompagnare gli aspiranti membri a raggiungere i target necessari all’ingresso (vi hanno partecipato tutti i paesi che infine sono entrati nella Nato nel 2004, 2009, 2017 e 2020 e attualmente il format del MAP è attivo con la Bosnia Erzegovina).

Il 18 Maggio 2022 la Finlandia e la Svezia hanno congiuntamente consegnato la lettera di richiesta ufficiale di ingresso nell’Alleanza atlantica. I rispettivi ambasciatori alla Nato, Klaus Korhonen per la Finlandia e Axel Wernhoff per la Svezia, le hanno personalmente consegnate nelle mani del segretario Generale dell’alleanza Jens Stoltenberg nella sede del quartier generale di Bruxelles. La richiesta ufficiale ha immediatamente ricevuto l’apprezzamento più ampio, oltre che del segretario generale, di quasi tutti gli alleati (con l’eccezione della Turchia).

La prospettiva dell’ingresso dei due paesi, che insieme alla Norvegia (già paese membro) porterebbe tutta la penisola della Scandinavia dentro la Nato, ha rimesso in moto il processo di allargamento. Questo cambiamento è stato in larga misura inaspettato perché i due paesi fino a pochi mesi fa non erano considerati due potenziali alleati, il loro ingresso non era una priorità nelle agende politiche nazionali e più in generale negli ultimi anni – con le ammissioni di Georgia e Ucraina in stand-by e l’ingresso meno problematico ma più periferico della Bosnia Erzegovina – pochi si aspettavano un allargamento così significativo sotto il profilo geopolitico. Questa accelerazione è stata innescata naturalmente dall’aggressione della Russia contro l’Ucraina e dalla percezione dei due paesi scandinavi che la guerra attuale sia il segnale di una politica più assertiva da parte di Putin, se non addirittura di un più ampio progetto espansionistico della Federazione Russa.

Prima di concentrarsi sui due casi specifici, sulle similarità e sulle differenze fra i due paesi nei confronti della Nato, vale la pena di notare gli aspetti che distinguono la loro ammissione rispetto ai round di allargamento avvenuti fra il 1999 e il 2020:

I nuovi ingressi messi in agenda a maggio rappresentano dunque un tipo di allargamento di natura diversa rispetto al passato recente. La richiesta dei due paesi di entrare nell’Alleanza congiuntamente risponde – oltre che a ragioni politiche di reciproco rafforzamento e di allargamento del consenso nelle opinioni pubbliche nazionali – anche alla volontà di sottolineare le differenze e la qualità del tipo di allargamento che si profila per la Nato. Sulla base di queste premesse si ritiene infatti che il processo di ammissione per i due paesi scandinavi si possa concludere più velocemente che in passato (l’ultimo ingresso della Macedonia ha richiesto circa due anni ma per Finlandia e Svezia si prevedono tempi più brevi).

Finlandia e Svezia, nella loro decisione di entrare nell’Alleanza atlantica, presentano alcune significative somiglianze e alcune differenze. I due paesi sono simili sotto diversi punti di vista (posizionamento geopolitico, cultura politica, vicinanza all’Occidente, grado di sviluppo socio-economico) ma gli aspetti che li accomunano di più in vista del loro ingresso nella Nato sono in particolare due: la loro storia di neutralità e la loro cooperazione con l’Alleanza nel periodo successivo alla fine della guerra fredda.

Entrambi i paesi, con la loro formale richiesta di ingresso nella Nato, hanno posto fine a una lunga tradizione di non-allineamento dal secondo dopo guerra in poi (nel caso della Svezia la politica della neutralità dura da oltre duecento anni ed è divenuta infatti parte costitutiva della sua stessa identità nazionale). Il non-allineamento durante la guerra fredda e nel periodo post-bipolare è stato il frutto di un approccio strategico teso a mantenere un rapporto cooperativo e una formale equidistanza fra blocco occidentale e blocco comunista prima e fra Occidente e Russia poi. Seppur con sensibilità diverse, Finlandia e Svezia hanno inteso il non-allineamento come precondizione per mantenere rapporti amichevoli ed evitare dispute con la Federazione Russa. A questa scelta politica strategica si è accompagnato un vasto consenso popolare a favore della neutralità e al non ingresso nell’Alleanza atlantica. Fino a pochi anni fa, secondo diverse indagini demoscopiche, la maggioranza dei finlandesi e degli svedesi erano contrari all’ingresso del loro paese nella Nato – gli orientamenti dell’opinione pubblica sono parzialmente cambiati con la guerra in Georgia del 2008, con la crisi in Ucraina e l’annessione russa della Crimea nel 2014 e ancor di più con l’attuale guerra in Ucraina. Sotto questo profilo, per la politica estera e di sicurezza dei due paesi la prospettiva di ingresso nella Nato rappresenta una radicale discontinuità, una rivoluzione copernicana rispetto al ruolo e al grado di coinvolgimento negli affari internazionali che diventare paesi Nato comporta.

Il secondo aspetto che accomuna Finlandia e Svezia e che rafforza l’idea che sia un ingresso congiunto e non occasionalmente coincidente riguarda la cooperazione militare pregressa con la Nato. A partire dagli anni Novanta entrambi i paesi hanno avviato un processo di ammodernamento e trasformazione delle loro politiche di sicurezza e delle strutture di difesa che hanno reso la cooperazione militare con gli Stati Uniti (sul piano bilaterale) e con la Nato (sul piano multilaterale) sempre più facile. A dispetto della politica ufficiale di non-allineamento militare, la collaborazione con la Nato è andata progressivamente crescendo dalla fine della guerra fredda in poi. Finlandia e Svezia sono stati membri della Partnership for Peace della Nato fin dal suo lancio nel 1994. Entrambi hanno partecipato alle missioni di peace keeping della Nato nei Balcani e in Afghanistan: ad esempio la Finlandia in Kosovo ha assunto il ruolo di framework nation nella missione KFOR, il ruolo più alto per un paese non membro; similmente la Svezia è stato l’unico paese europeo non membro della Nato a guidare un PRT (Provincial Reconstruction Team) nella missione ISAF in Afghanistan. Inoltre, fra le varie iniziative di cooperazione individuali, Finlandia e Svezia hanno preso parte al Planning and Review Process (PARP), un programma attraverso cui la Nato individua degli standard di capacità militari e li condivide con i partner non membri che vi partecipano. Il PARP ha rappresentato un foro entro cui la Nato e i due paesi hanno condiviso modelli di pianificazione comune, sviluppo di strutture militari simili, percorsi di socializzazione e familiarizzazione fra ufficiali ed establishment del comparto difesa della Nato e dei partner, standard operativi condivisi.

Questi due elementi in comune a Finlandia e Svezia – percorso di trasformazione del settore difesa simile e storia di non-allineamento – hanno concorso a rafforzare la prospettiva di un ingresso congiunto nella Nato. Questa unità di intenti, più specificamente la prospettiva di entrare nell’Alleanza necessariamente insieme, è stata a sua volta consolidata, da un lato, dall’idea che entrando in blocco il passaggio sarebbe stato più accettabile e meno traumatico per entrambi i paesi ma, dall’altro, anche dalla consapevolezza che la Finlandia non avrebbe accettato il solo ingresso della Svezia (che l’avrebbe ridotta al ruolo problematico di unico stato cuscinetto fra Nato e Federazione Russa) e l’ingresso della sola Finlandia avrebbe creato una discontinuità territoriale fra i membri della Nato che avrebbe creato un anomalo isolamento della Svezia (oltre che difficoltà alle linee di contatto e approvvigionamento fra paesi membri). Per queste ragioni Finlandia e Svezia, benché non allineati e non paesi membri della Nato, sono stati definiti ‘alleati virtuali’.

Al di là di questi elementi comuni, Finlandia e Svezia presentano alcune differenze che tuttavia non sembrano avere un impatto significativo sulla decisione di ingresso congiunto nella Nato. In primo luogo, venendo da una lunga tradizione di non allineamento, entrambi temono le reazioni della Russia alla loro decisione di entrare nella Nato, nondimeno i timori della Finlandia sono superiori rispetto a quelli della Svezia. La prima condivide con la Russia una frontiera di oltre 1.300 Km, ha un’esposizione commerciale (come partner di primo piano negli scambi con la Russia oltre a dipendere dalle forniture di gas russo), vari decenni di non-allineamento non hanno cancellato il ricordo dell’invasione sovietica del 1939-40, infine la Finlandia è più esposta alla competizione sull’Artico e alle contromisure che Mosca potrà prendere in reazione all’ingresso nella Nato rispetto a quanto lo sia la Svezia. Quest’ultima non confina territorialmente con la Russia, ha una esposizione economico-commerciale inferiore, una storia di pace e neutralità straordinariamente più lunga (nella percezione collettiva un’aggressione russa è avvertita come largamente più improbabile rispetto a ciò che avviene per i finlandesi) e anche sul piano geopolitico è meno esposta (il più grande timore della Svezia in caso di scontro con la Russia è l’ipotesi di un attacco all’isola di Gotland dall’enclave di Kaliningrad che darebbe alla Russia un vantaggio nel controllo del Mar Baltico).

In secondo luogo, la preparazione e lo strumento militare finlandesi sono superiori a quelli della Svezia. In ragione di quanto sottolineato appena sopra, la Finlandia non ha mai abbandonato la leva obbligatoria, ha continuato a investire molto e in modo efficiente sulle sue capacità di difesa (può contare su una forza militare attivabile in tempo di guerra che può raggiungere le 280.000 unità). Inoltre, la Finlandia negli ultimi due decenni ha efficacemente ammodernato le proprie forze armate, fa affidamento su capacità militari di primo livello dal punto di vista tecnologico e ha investito molto negli ultimi anni in nuove dotazioni militari (a Dicembre 2021 ha acquistato 64 caccia F 35 Lightining II dagli USA). Questo distingue l’ingresso nella Nato della Finlandia da tutti gli altri: lo strumento militare che porta nell’Alleanza è un contributo notevole. Infatti, l’adesione finlandese è percepita dalla Nato come particolarmente attrattiva perché il paese è senz’altro classificato come un security provider piuttosto che come security consumer (quindi un ‘produttore’ piuttosto che un ‘consumatore’ di sicurezza).

La Svezia, ancorché abbia riformato e ammodernato il proprio settore difesa, presenta un potenziale militare, in termini comparativi con la Finlandia, inferiore. Coerentemente con una più lunga tradizione di neutralità e una cultura antibellicista, oltre che con una percezione più attenuata delle minacce alla sicurezza nazionale poste dalla Russia, la Svezia non ha investito nelle forze armate quanto ha fatto la Finlandia. Può contare su una forza attiva di circa 60.000 unità – che prevede secondo le dichiarazioni del governo delle ultime settimane di portare a 90.000 entro il 2025. Fermo restando il grosso investimento nella trasformazione del suo strumento militare e il livello di interoperabilità con le missioni Nato, a cui si è accennato più sopra, la Svezia offre alla Nato un contributo significativo ma non paragonabile a quello finlandese.

Infine, a distinguere i due paesi è una volontà politica parzialmente diversa. L’ingresso nella Nato in Svezia è stato osteggiato a lungo sia a livello politico sia a livello di opinione pubblica, non a caso la sua richiesta di ingresso e i tempi brevissimi in cui è maturata ha sorpreso molti alleati della Nato. Nel paese l’ingresso nella Nato non ha mai goduto di un consenso popolare maggioritario e anche i principali partiti politici (eccetto il Partito Liberale, comunque di piccole dimensioni) ha mai sostenuto l’adesione alla Nato come priorità nel breve periodo. Anche quando la Svezia ha partecipato alle missioni Nato lo ha fatto sottolineando il mandato dell’Onu (in Afghanistan e nei Balcani), motivando il suo impegno militare più come contributo all’intervento collettivo della comunità internazionale piuttosto che come partecipazione alla missione Nato. Più in generale, in Svezia è spesso prevalso un orientamento contrario a politiche che mettessero a repentaglio la neutralità e comportassero il coinvolgimento del paese in conflitti provocati da altri e in cui la sicurezza nazionale non fosse in gioco – la Nato e l’Alleanza con gli Stati Uniti sono state prevalentemente interpretate in questa luce.

Nel caso della Finlandia invece la vicinanza alla Nato è stata più solida, il dibattito interno ha riguardato l’opportunità o meno di entrare formalmente nell’alleanza (mettendo a repentaglio il non-allineamento) ma la necessità per il paese di stabilire una cooperazione militare intensa con la Nato non è mai stata messa in discussione. In un sondaggio di febbraio 2022, per la prima volta la maggioranza dei finlandesi ha espresso parere favorevole all’ingresso nella Nato (53% contro il 28% dei contrari). In termini comparativi, la motivazione finlandese è decisamente più marcata. Inoltre, la Finlandia – a differenza della Svezia – ha sempre investito molto sulla propria difesa autonoma, dunque la Nato rappresenta un rafforzamento di quest’ultima piuttosto che un rischio di intrappolamento nelle politiche dell’Alleanza. Il presidente Sauli Niinistö, non sorprendentemente, ha rigettato fermamente l’idea di una “finlandizzazione”[3] dell’Ucraina, sottolineando con forza che le politiche di non-allineamento del paese non hanno mai significato né l’abdicazione al ruolo internazionale autonomo del proprio paese né la negazione della sua piena sovranità e nemmeno il disinvestimento nella difesa nazionale.

La combinazione della persistenza della trentennale politica della porta aperta della Nato e della solidità dei due aspiranti membri ha senz’altro dei risvolti positivi per la comunità euro-atlantica. Tuttavia, questo nuovo allargamento non è privo di incognite e nuove sfide.

Sul versante dei benefici per la Nato è evidente, anzitutto, che l’Alleanza esce senz’altro rafforzata sul piano politico e militare. Soltanto fino a pochi mesi fa la Nato era percepita come un’organizzazione in profonda crisi (Trump nel 2017 ne aveva decretato pubblicamente l’obsolescenza, Macron l’aveva descritta come “cerebralmente morta”, all’indomani dal precipitoso ritiro dall’Afghanistan nell’estate del 2021 fu ritenuta un’organizzazione inefficiente e inaffidabile). Oggi, invece, alla Nato è ampiamente riconosciuta una straordinaria resilienza ed è riconosciuta per quello che è ed è stata negli ultimi trent’anni: l’organizzazione multilaterale di sicurezza più potente dell’attuale sistema internazionale. Questa resilienza è provata dalla sua efficacia nel sostenere la resistenza ucraina contro l’aggressione russa e ancor di più nella sua capacità di attrarre nuovi membri. Questo aspetto è essenziale per un’alleanza perché la Nato (come tutte le alleanze nella storia) si fonda su una promessa di assistenza militare futura e, dunque, la sua credibilità è un ingrediente cruciale per la sua tenuta. Attrarre nuovi membri, soprattutto se questi ultimi hanno tradizionalmente manifestato una forte riluttanza ad entrarci, è la cartina di tornasole della resilienza e della credibilità in termini di protezione che la Nato può offrire.

A questo si accompagna un considerevole allargamento del perimetro di sicurezza degli alleati. Se Finlandia e Svezia entreranno definitivamente nella Nato è evidente che dal punto di vista geopolitico amplieranno lo spazio geopolitico di protezione e stabilità della comunità euro-atlantica. Lo faranno non solo in termini territoriali ma sostanziali perché, come si è notato nella sezione precedente, il contributo effettivo che i due paesi offrono alla Nato dal punto di vista politico e militare è per la prima volta quello dei security provider piuttosto che quello di ‘consumatori di sicurezza’.

Tuttavia, l’allargamento della Nato avviato dopo la fine della guerra fredda non è mai stato privo di criticità. L’ingresso di Finlandia e Svezia, nonostante la sua diversità rispetto ai round di ammissioni precedenti, non può eclissare quelle stesse criticità, anzi in alcuni casi rischia di approfondirle. Sulla base dell’enorme dibattito sull’allargamento della Nato degli ultimi trent’anni, due aspetti critici meritano di essere sottolineati.

Il primo problema, messo in evidenza da innumerevoli commentatori ed esperti di affari internazionali già dagli anni Novanta[4], riguarda una tensione interna inevitabile fra coesione interna e inclusione. Da un lato, ammettere nuovi membri conferma un buono stato di salute di un’alleanza e ne moltiplica le risorse e l’orizzonte geopolitico. Dall’altro, incrementa il livello di eterogeneità delle domande di sicurezza, complica i processi decisionali e aumenta il rischio di incoerenza strategica. Si tratta della tensione fra l'articolo 5 del Patto Atlantico (che garantisce l’unità della sicurezza collettiva degli alleati) e l’articolo 10 (che statuisce la politica della ‘porta aperta’): quel che si guadagna da una parte necessariamente va a detrimento dell’altra. La manifestazione storica di questa tensione è emersa durante la guerra globale al terrorismo in Iraq e in Afghanistan dove le divisioni fra ‘vecchia Europa’ (i vecchi paesi membri) e ‘nuova Europa’ (i nuovi membri) hanno creato una tensione interna sugli scopi strategici ultimi della Nato, su quale debba essere il suo orizzonte operativo (alleanza euro-centrica vs. global Nato). Dunque, il raddoppio dei paesi membri (con Finlandia e Svezia si arriverebbe a 32 alleati contro i 16 del 1991), in un’alleanza dove si decide con la regola dell’unanimità, comporterà sensibilità diverse, urgenze di sicurezza potenzialmente opposte e processi decisionali molto più complicati.

Il secondo nodo problematico riguarda naturalmente i rapporti con la Russia. L’allargamento della Nato non poteva evitare di creare attriti con la Russia, indipendentemente dal presidente in carica. Questi attriti erano già emersi negli anni Novanta con Eltsin, si sono acutizzati con Putin, ma persisteranno anche oltre la vita politica dell’attuale presidente russo. Come fanno notare molti esperti di relazioni internazionali, in gioco c’è una dinamica inevitabile: la concentrazione di potere (e l’allargamento della Nato con l’inclusione di Finlandia e Svezia lo rappresenta ancor più chiaramente rispetto agli allargamenti precedenti) crea sempre nel sistema internazionale sospetti, preoccupazioni e percezione di una minaccia. Tutte le alleanze della storia – indipendentemente dalla loro natura offensiva o difensiva, democratica o non democratica – generano sicurezza per gli alleati e insicurezza per chi sta fuori dall’alleanza. Ma è il loro livello di potere militare che spaventa non la loro natura politica[5]. Questo è un dilemma a cui la Nato non può sfuggire fintantoché rimarrà un’alleanza militare: quanto più si rafforza (anche allargandosi) tanto più spaventa gli avversari attuali e potenziali. Questa è una dinamica che non ha riguardato solo la Russia ma riguarda tutti gli attori internazionali fuori dalla sfera politica euro-atlantica. Dunque, nel momento in cui l’allargamento a Finlandia e Svezia incrementerà la sicurezza della Nato e dei due paesi, esporrà questi ultimi e l’alleanza stessa a una dinamica competitiva nel Baltico e nell’Artico nuova, completamente inedita rispetto ai decenni del non-allineamento. Più in generale, l’espansione a nord della Nato non potrà evitare di irrigidire le relazioni fra paesi Nato e Russia, un irrigidimento che rischia di non essere più confinato nell’Europa dell’est ma è con buona probabilità destinato ad aprire un nuovo fronte nell’High North.

[1] Sul sito ufficiale della Nato, nella pagina “Enlargement and Art. 10” (aggiornata al 18 Maggio 2022) si riconosce che gli attuali aspiranti nuovi membri sono 5: Bosnia Erzegovina, Georgia, Ucraina, Svezia e Finlandia.

[2] In questa partnership sono incluse formalmente anche Bielorussia e Russia con cui tuttavia i rapporti sono attualmente sospesi.

[3] Per finlandizzazione si intende la creazione di uno stato cuscinetto neutrale fra due sfere di influenza o in prossimità geografica di una grande potenza, nella sua accezione negativa indica una politica debole e remissiva nei confronti delle grandi potenze che minacciano la sicurezza di quel paese.

[4] Si vedano: M.E. Brown, "The flawed logic of NATO expansion", Survivalì, vol. 37, no. 1, 1995, pp. 34-52; J.L. Gaddis, "History, grand strategy and NATO enlargement", Survival, 40: 1, 1998, pp. 145-146; T. German, "NATO and the enlargement debate: enhancing Euro-Atlantic security or inciting confrontation?", International Affairs, vol. 93, no. 2, 2017, pp. 291-308.

[5] A. Colombo, La lunga alleanza. La Nato tra consolidamento, supremazia e crisi, Milano, Angeli, 2000; G.H. Snyder, "The security dilemma in alliance politics", World politics, vol. 36, no. 4, 1984, pp. 461-95.

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